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Cultura

Il collasso urbano dei Maya non fu solo colpa della siccità: la nuova teoria che cambia tutto

Ilaria Rosella Pagliaro
25/11/2025 08:46:00

Perché le persone decidono di vivere in città e, un giorno, di tornare indietro? Una domanda che oggi ci sembra legata al traffico, al prezzo degli affitti, allo smog o alla voglia di respirare un po’ di aria pulita. E invece no: quel tira e molla tra vita urbana e vita rurale affonda le radici molto più lontano, fino alle prime società agricole. Una storia che ci riguarda, anche se è iniziata più di mille anni fa.

È l’ipotesi avanzata da un gruppo di ricercatori che ha analizzato i grandi centri dei Maya classici, mettendo insieme dati climatici, modelli economici e tracce di conflitti. Ne è uscito un quadro sorprendente, che smonta la vecchia spiegazione “tutta siccità e carestie” e racconta un processo molto più complesso, quasi familiare: quello della città che ti attrae e allo stesso tempo ti respinge.

Un nuovo modo di leggere il collasso urbano dei Maya

Per capire il collasso urbano dei Maya, gli studiosi della UC Santa Barbara, guidati dall’archeologo Douglas Kennett, hanno scelto un approccio inedito. Hanno trattato le città antiche come organismi viventi, influenzati da clima, risorse, rivalità politiche e perfino da quelle “economie di scala” che rendono la vita urbana vantaggiosa… almeno finché dura.

Secondo Kennett, le città Maya non si espansero perché la vita urbana fosse più comoda, anzi, era più costosa, più affollata, più rischiosa dal punto di vista sanitario. Allora perché intere popolazioni di agricoltori decisero di trasferirsi nei centri monumentali?

Per un intreccio di motivazioni: periodi di siccità da affrontare insieme, la presenza di infrastrutture agricole che funzionavano davvero, sistemi politici che promettevano protezione (e chiedevano obbedienza), e quella dinamica tanto umana quanto eterna tra chi comanda e chi spera di trarne beneficio.

Il punto più interessante, però, arriva quando il modello costruito dai ricercatori si ribalta. Le città non vennero abbandonate nei momenti peggiori, come ci hanno sempre raccontato, ma quando il clima iniziò a migliorare.

Una contraddizione apparente che invece dice molto: se vivere in città non portava più vantaggi, e la campagna tornava ad essere un luogo dove respirare, produrre cibo e sentirsi liberi, il richiamo della vita rurale diventava irresistibile. Una dinamica che oggi ritroviamo nei nuovi flussi verso i borghi, nelle fughe dalle metropoli troppo costose e nell’idea, più concreta che romantica, che si possa vivere meglio altrove.

Quando il presente somiglia al passato

La forza di questo studio non sta solo nell’aver messo ordine tra teorie che per anni si sono fatte la guerra, tra chi puntava il dito contro il clima, chi contro i conflitti, chi contro l’economia. Sta nel renderci evidente una verità semplice: le città sono sistemi delicati, che funzionano finché riescono a dare più di quanto chiedono.

Nel caso dei Maya, quel fragile equilibrio si spezzò quando le risorse intorno ai centri urbani si esaurirono, mentre nelle campagne tornava la possibilità di ricominciare da zero. Gli abitanti scelsero la libertà, lasciandosi alle spalle templi, piazze e strutture che oggi guardiamo come meraviglie. Ma che, allora, non riuscivano più a sostenere le loro vite.

Così, mentre osserviamo le nostre città crescere o svuotarsi, tra crisi climatiche e piccole rivoluzioni quotidiane, la storia dei Maya ci ricorda che niente dura per caso e niente crolla per un’unica ragione. È sempre una somma di pressioni, scelte, paure e possibilità. Un mosaico umano, eterno, che attraversa il tempo.

Fonte: Proceedings of the National Academy of Sciences

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Articolo di Green Me