Il Governo ha pubblicato il Decreto interministeriale firmato il 19 novembre 2025 dal Ministero dell’Economia e dal Ministero del Lavoro (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28 novembre 2025), che conferma la perequazione automatica delle pensioni a partire dal prossimo gennaio.
In sostanza, è l’adeguamento annuale degli assegni previdenziali e assistenziali al costo della vita, calcolato sulla base dei dati ISTAT e con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto sono stati definiti i parametri per capire di quanto aumenteranno gli assegni dal prossimo anno.
Il tasso di rivalutazione fissato per il 2026 è pari al +1,4%. Ma fila tutto?
Cosa prevede il decreto
Il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale stabilisce un tasso provvisorio dell’1,4% (si dovrà attendere la conferma dell’indice definitivo: qualora vi fossero scostamenti, il conguaglio avverrà nel 2027) e prevede:
- aumento pieno per le pensioni fino a quattro volte il minimo
- incrementi parziali per gli assegni superiori
- adeguamento automatico dei principali valori di riferimento (minimali, massimali, assegno sociale)
La perequazione, inoltre, non si applica in maniera uniforme a tutte le pensioni. La legge prevede un meccanismo progressivo:
- pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo: rivalutazione integrale del tasso stabilito, più 1,4%
- pensioni tra 4 e 5 volte il minimo: rivalutazione parziale, pari al 90% del tasso, più 1,26%
- pensioni oltre 5 volte il minimo: rivalutazione ridotta, pari al 75% del tasso, più 1,05%
Cosa non va secondo Spi Cgil
La perequazione delle pensioni fissata all’1,4% è assolutamente insufficiente a recuperare la perdita di potere d’acquisto prodotta dall’impennata inflattiva del biennio 2022–2023, e oggi gli aumenti previsti risultano quasi del tutto erosi dall’Irpef e dalle addizionali, con un impatto reale minimo e in molti casi simbolico.
Lo dicono dagli uffici Previdenza della Cgil nazionale e dello Spi Cgil, mettendo in evidenza un quadro che piuttosto conferma la crescente difficoltà economica di tantissimi pensionati.
Le pensioni minime, come abbiamo già detto, aumenteranno di 3,12 euro, passando da 616,67 a 619,79 euro. Una pensione nel 2025 di 632 euro netti passerà invece nel 2026 a 641 euro netti, solo 9 euro in più al mese; una pensione di 800 euro netti crescerà anch’essa di soli 9 euro mensili, da 841 a 850 euro; una pensione da 1.000 euro netti aumenterà di soli 11 euro al mese; mentre una pensione di 1.500 euro lordi, dopo la tassazione, crescerà di appena 17 euro mensili.
Inoltre, i sindacalisti sottolineano un nodo strutturale del sistema: l’assenza di un coordinamento efficace tra perequazione, fiscalità e maggiorazioni sociali che produce effetti distorsivi sul piano dell’equità complessiva. In alcuni casi, infatti, i trattamenti assistenziali e le pensioni minime integrate, strumenti indispensabili contro la povertà e giustamente esentati da Irpef, possono determinare importi netti finali molto vicini, e talvolta superiori, a quelli di pensioni contributive leggermente più alte, costruite con anni di lavoro e versamenti. Si spiega che ciò non dipende dalle persone che percepiscono tali prestazioni, che vanno sostenute e tutelate, ma da una normativa che mantiene la no tax area ferma a 8.500 euro annui e non armonizza le regole tra i diversi istituti.
Il risultato sarebbe un sistema che rischia di creare disuguaglianze non volute e di alimentare sfiducia e senso di ingiustizia sociale, compromettendo i principi di equità e dignità su cui deve fondarsi la previdenza pubblica.
Fonte: Cgil Spi
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